La cucina laziale è ricca e saporita, ed è famosa per non disdegnare affatto il quinto quarto e tutti i tagli considerati “meno nobili” della carne: pajata, trippa, coratella, nervetti, animelle ne sono solo un piccolo esempio.
Ma quando si presenta la necessità di valorizzare un taglio coriaceo e fibroso, ecco che la carne viene battuta per renderla più tenera. Pare che il nome “picchiapò” derivi proprio da tale gesto, anche se non è l’unica ipotesi.



Picchiapò, picchia’n po’ o Picchiabbò?
Oltre alla pratica di battere – “picchiare”, appunto – la carne sul tagliere, un’altra possibilità sull’origine del nome vuole che si riferisca alla piccantezza che, nella picchiapò, è accentuata.
Ancora: scritto con la “b”, Picchiabbò è il nome del nano di corte protagonista di una favola del 1927 di Trilussa: Picchiabbò, la moje der ciambellano.
Qualsiasi sia l’origine del nome, quel che è certo è che questa sorta di ragù rustico è diventata, da piatto rimediato a partire da scarti e da tagli di seconda scelta, una delle ricette più intense e curiose della cucina romana.
Oltre che per valorizzare le parti meno pregiate della carne, la picchiapò veniva cucinata anche per recuperare quella utilizzata per fare il brodo.
Essendo una preparazione delle feste, l’allesso (ossia “il bollito”, detto alla romana) era un prodotto prezioso, che non andava assolutamente sprecato.
Perciò, le nonne romane hanno cominciato a tagliarlo in pezzi, facendolo andare in padella con pomodoro e cipolle, così da caricarlo di sapore e dargli una nuova vita.
Dal poco, l’abbondanza
La carne alla picchiapò racconta una storia di resilienza contadina, racconta l’abilità dei nostri nonni di trasformare il poco in abbondanza, di quando l’utilizzo di ogni parte dell’animale non era un’attenzione ecologista, bensì una necessità dettata dalla fame.
Ed ecco, come per magia, quel che si può creare da qualche avanzo di carne: uno stufato molto corposo, impreziosito da erbe aromatiche a piacere, cipolla, un po’ di sugo di pomodoro e una generosa spolverata di peperoncino, per un sapore netto e verace.
Non si trova, oggi, osteria romana che si rispetti che non serva questa preparazione, pilastro della cucina tradizionale che, come tale, rimane negli anni adattandosi al cambiamento del gusto popolare.
Oggi, c’è chi aggiunge dei vegetali di stagione, c’è chi arricchisce la preparazione con tipologie di carne diverse, o con un po’ di concentrato di pomodoro per un gusto più profondo o, perché no, sfumando con del vino rosso: ciò che conta è il rispetto delle materie prime e dei meravigliosi ingredienti che la natura ci regala.
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Scritto da Redazione
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